Recensione di “Captain America: Brave New World”: eredità pesante e occasione mancata
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Il peso dello scudo è grande, ma il peso delle aspettative lo è ancora di più. Captain America: Brave New World avrebbe dovuto essere il manifesto della nuova era dell’MCU, con Sam Wilson pronto a raccogliere l’eredità di Steve Rogers. Invece, è il simbolo di un universo cinematografico in crisi d’identità, tra riscritture, riprese aggiuntive e un’identità narrativa smarrita.
L’ombra lunga di Winter Soldier
Il film punta chiaramente a replicare il modello di Captain America: The Winter Soldier: un thriller politico, con cospirazioni, colpi di scena e una riflessione sul potere e il controllo. Ma dove il film del 2014 brillava per tensione e compattezza, Brave New World si perde in una trama scontata e priva di mordente, sciatta nella scrittura e nella messa in scena. Il complotto è facilmente intuibile, e la costruzione del mistero appare frammentaria, segno evidente delle tante riscritture.
L’azione c’è, ma è priva di quella fisicità viscerale che rendeva le scene di combattimento di Winter Soldier riuscite e coinvolgenti. Qui le coreografie sono generiche, quasi televisive, e il montaggio frenetico penalizza il coinvolgimento.

Sam Wilson: un Captain America in panchina
Il nodo più doloroso è il trattamento riservato al protagonista. Sam Wilson, interpretato da Anthony Mackie, è quasi uno spettatore della propria storia. Il film accenna a temi importanti: il peso dell’eredità, il valore del simbolo, il confronto tra giustizia e responsabilità. Ma queste riflessioni vengono soffocate dalla necessità di inserire gag fuori tempo e da un ritmo che preferisce l’inseguimento all’approfondimento.
La Marvel sembra avere paura del silenzio, della profondità, del dramma, stempera qualsiasi pretesa di epica con una comicità sempre fuori luogo. In questo non è aiutato da un protagonista che, per quanta buona volontà ci metta, non ha quella fisicità esplosiva e quell’intensità patriottica di Chris Evans, ma appare scialbo e poco incisivo, sia nelle scene di dialogo che di combattimento.

Se il film si accende, è grazie a Harrison Ford. Nei panni del Presidente Thaddeus “Thunderbolt” Ross, Ford si mangia la scena con il suo carisma intramontabile. È un personaggio ambiguo, potente, capace di scatenare il caos per raggiungere i suoi obiettivi. Ma nello stesso tempo mantiene quella fragilità che lo rende umano.
Senza fare spoiler, c’è una sequenza in particolare – che coinvolge il “lato rosso” del generale Ross – che regala al pubblico uno dei pochi momenti davvero cinematografici. È grezza, è spettacolare, è cinema d’intrattenimento puro. Ma arriva sul finale e arriva dopo due ore di tedio, dura troppo poco e ha una risoluzione che è da mascella a terra.
Un’occasione mancata
La regia di Julius Onah è corretta ma priva di identità. Non c’è una visione autoriale forte, e il film sembra prigioniero della “formula Marvel”, con il suo mix ormai stanco di azione, battute e costruzione del franchise.
Più che un nuovo inizio, Brave New World sembra un tassello di una serie TV troppo lunga, priva di un vero climax. Non c’è una vera posta in gioco emotiva, e la connessione con lo spettatore si perde. Peccato.