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Torre Alfina e bosco del Sasseto: una gita nella Tuscia incantata e gotica

Segui Email Un “itinerario fantastico” con le atmosfere da medioevo gotico: visitiamo Torre Alfina, piccolo borgo in Provincia di

Torre Alfina e bosco del Sasseto: una gita nella Tuscia incantata e gotica

Un “itinerario fantastico” con le atmosfere da medioevo gotico: visitiamo Torre Alfina, piccolo borgo in Provincia di Viterbo sotto il quale c’è il suggestivo bosco del Sasseto.

Tutto è iniziato leggendo una fanfiction medievaleggiante – consigliatami dalla mia amica Vittoria – che mi è piaciuta moltissimo. Il protagonista era il comandante dell’esercito del re; un uomo spregiudicato, machiavellico ed estremamente affascinante.

Terminato di leggere il racconto entro in uno stato di tristezza e vuoto cosmico, come sempre accade quando finisci di leggere un libro che ti ha conquistato, trasportandoti nel mondo che rivela e racchiude…

Cos’avrei dato per continuare a vivere ancora un po’ in quelle atmosfere da medioevo gotico

Un giorno mentre mi aggiravo tra gli scaffali di una libreria trovo un titolo che attira la mia attenzione: “Lazio – I Luoghi del Mistero e dell’Insolito”. Sulla copertina svetta una costruzione, splendida quanto cupa, dalle forme snelle e slanciate, tipiche dello stile gotico; subito vado alla ricerca all’interno dell’opera, del luogo dove sorge questo monumento. E scopro che è una tomba, situata in una radura che si apre in un bosco da fiaba che si estende all’ombra di un imponente e maestoso castello. Chi vi giace è stato proprietario del bosco e signore del maniero che vi torreggia; quest’uomo portava lo stesso nome del protagonista della mia amata fanfiction: Cahen.

Il mio cervello va in corto circuito.

Dopo una brevissima sindrome di Stendhal, ovviamente acquisto il libro e corro a casa per documentarmi se bosco e castello siano visitabili e la risposta è… sì!

Felice come non mai, telefono a Vittoria, la informo e ci accordiamo per quando organizzare la nostra gita nel fantastico borgo in cui sono siti questi luoghi meravigliosi: Torre Alfina.

Alle 8 di domenica mattina, dopo aver mangiato il mio immancabile cornetto alla crema, sono in macchina, pronta a partire. Il viaggio dura due orette e, più mi avvicino alla meta, più il paesaggio si fa disteso e verdeggiante, punteggiato qua e là di campi di grano maturo e papaveri. Quando arrivo in vista del castello, lo trovo ancora avvolto da una nebbia lattiginosa che ne cela le pendici; nella luce di un mattino dal cielo coperto da nubi incombenti gonfie di pioggia, sembra ancor più umido e freddo. È magnifico.

Lascio la macchina al parcheggio, Vittoria e suo marito non arriveranno prima di mezzogiorno, così mi addentro alla scoperta del borgo.

Giro di ricognizione

Mentre mi dirigo verso la piazza principale, supero, alla mia sinistra una casa adornata da un curioso murale in tinta bluette, che raffigura una strana “Madonna” che mi scruta con aria inquieta; il fianco della stessa casa e adorno di una composizione di due corpi maschili che vanno a formare una sorta di disteso “yin e yang”; e senza neppure accorgermene, mi ritrovo nella piazza principale. Da qui parte il breve, ma irto sentiero che conduce alla fortezza.

La mia attenzione però, viene catturata da una chiesetta piccola e slanciata, con la sua facciata a capanna e il suo campanile aguzzo, che si staglia sulla piazza. Varco il portale lievemente strombato, sormontato da candida lunetta di ceramica invetriata, su fondo azzurro. L’interno è semplice e austero quanto l’esterno, con un tetto dalle travi a vista; unica nota discordante in questa tenue armonia è la vetrata dell’abside, che spicca come una pietra preziosa incastonata. Mi avvicino per ammirarla meglio e mi rendo conto che più che un mosaico di tessere di vetro, è una deflagrazione di lame di colore che sembrano scorrere le une accanto alle altre a comporre una madonna onirica quanto apocalittica, che di certo non trasmette un senso di pace, ma al contempo, non ti permette di distogliere lo sguardo, risucchiandoti nel suo vortice turbinoso di colori.

Castello di Torre Alfina

Uscita dalla chiesa, mi trovo faccia a faccia con l’imponente mole del castello, e anche se la visita che abbiamo prenotato sarà alle 17, nulla mi impedisce, nel mentre, di andare a dare un’occhiata. Così mi inerpico per la salita a larghi gradoni che, sicuramente, un tempo permettevano di arrivare con i cavalli fin nella corte del castello. Antistante l’ingresso alla fortezza mi accoglie un vasto piazzale che si affaccia sul borgo e le campagne sottostanti. Mentre scruto rapita il paesaggio, reso umido e torbido dalla giornata uggiosa, percepisco con la coda dell’occhio qualcosa di strano alla mia destra, mi volto di scatto e vedo, sul tetto della casa più vicina, delle lunghe gambe umane che si tendono all’insù tra le tegole; con mio grande sollievo sono gli arti di un manichino, che sono in compagnia di una gigantesca mano rossa che indica il cielo, come anche una nera sagoma umana. Decisamente curioso e un tantino inquietante…

Un po’ turbata da quella visione, mi ripropongo di chiedere a qualcuno il motivo di un tale allestimento su un tetto, ma nel mentre decido di voltarmi e di oltrepassare il barbacane del castello per accedere alla sua corte interna. Appena superata la soglia e mosso qualche passo, scopro, con mio grande stupore che il volto interno del maniero è completamente diverso da ciò che prospettava il suo aspetto esterno: un accogliente edificio a “ferro di cavallo” color cotto, impreziosito da nicchie che ospitano busti marmorei, domina su un ampio piazzale dove si impenna per l’eternità un cavallo di bronzo davanti ad uno splendido giardino all’italiana, delimitato da una candida balaustra.

Castello di Torre Alfina: corte e giardini

Decido di visitare il giardino, e mentre mi aggiro tre le siepi basse e profumate di pioggia, giungo davanti a un verdeggiante muro di lauro, che inizialmente penso sbarri la mia esplorazione, ma che l’istante dopo, voltato l’angolo, rivela una breve scalinata nascosta che mi conduce ad un angolo più appartato del giardino, adiacente le mura di cinta dell’ingresso. Qui i suoni giungono ovattati, scompaiono le siepi decorative e dinanzi a me si stende solo un verdissimo manto erboso. Sento di essere appena entrata in uno spazio diverso, magico, quasi sacrale; e alzando gli occhi, scorgo, nel punto più prossimo alla merlatura, una grande vasca circolare di pietra, sorretta da piccole colonnine. Mi chiedo cosa sia, a cosa serva, e più mi avvicino, più prendo consapevolezza dello scopo di quel grande bacile rialzato: anni e anni fa in quel luogo ardeva il fuoco che serviva per avvertire e comunicare con l’esterno per qualsiasi eventualità. Come dovevano essere ipnotiche le sue alte fiamme e ora, sporgendomi, vedo solo il riflesso che mi restituisce la pozza d’acqua che si è accumulata con il temporale.

Rimango ancora un momento a godermi la brezza e il paesaggio che mi offrono le mura della fortezza e poi decido di ridiscendere al borgo e poi al parcheggio; ormai Vittoria e il marito dovrebbero essere arrivati.

Il borgo

Infatti, mentre sbuco nel piazzale dov’è parcheggiata la mia auto, li vedo arrivare e parcheggiare a loro volta. Poiché è ancora presto per pranzare e la visita al bosco l’abbiamo prenotata per le 15, decido di mostrargli la chiesa e la corte del castello che ho appena visto e poi, tutti e tre ci avviamo verso il borgo, alla scoperta delle sue stradine e di tutto ciò che di bello ha da mostrarci. Le case che si affacciano sui vicoli sono davvero splendide, con le pietre a vista e i fiori alle finestre; in alcuni spiazzi e crocicchi troviamo statue di terracotta dalle fogge più classiche – come due innamorati seduti su un muretto – a quelle più bizzarre – come una giovane dal corpo esile e slanciato, con dei capelli lunghi quanto la veste, che tendono al cielo, sfidando la forza della gravità – oppure maschere appese ai muri che sembrano volti che emergono dalla pietra.

Senza quasi accorgercene, usciamo dal borgo, seguendo una strada che ci conduce verso la campagna circostante, davanti a una chiesetta che sorge isolata. È molto semplice e, già dall’esterno, si preannuncia ad un’unica navata; ma qualcosa nel timpano del frontone mi colpisce, forse la cornice di gigli, o lo sfondo azzurro nel quale si stagliano due angeli che sorreggono il monogramma dorato di Maria. Fortunatamente è aperta, così entriamo a visitarla.

Con nostra grande sorpresa l’interno – sebbene sicuramente risalga all’epoca contemporanea – è interamente decorato con motivi medievaleggianti; persino le sottili travi a vista del soffitto sono dipinte con delicati motivi geometrici e floreali.

Usciti dalla chiesetta, proseguiamo sulla strada su cui notiamo sorgere, a intervalli regolari dei “cartelli” che offrono al passante delle poesie; mi ritrovo a leggere un frammento di “In riva alla sera” di Michele Gentile:

“Ho incontrato un uomo

in riva alla sera.

Mendicava il tramonto

in fila con i suoi tormenti,

probabilmente in pena

o semplicemente stanco

di assomigliare.

Curvo dinanzi al passato,

attento a non farsi sentire

masticava l’amaro del tempo

stonando una vecchia canzone.”

Quanta nostalgica malinconia è distillata in questi versi… e mentre naufrago tra questi pensieri, camminando, giungiamo giustappunto davanti al cimitero del paese.

Dalle inferriate del cancello chiuso, ci mettiamo a curiosare come allegre comari, lasciando che gli occhi scorrano sulle lapidi. Così scopriamo che gli abitanti di Torre Alfina sono estremamente fantasiosi nell’assegnare nomi alla loro progenie; ad esempio scorgiamo un Torello, un Dionisio, un Almiro, un Giocondo… e i cognomi sono altrettanto fantastici, se non ancor più esilaranti! Ma preferisco tacerli per ovvi motivi di privacy.

Decidiamo che è giunto il momento di fare dietro front per andare a pranzare con i nostri deliziosi panini imbottiti “home-made”. Sulla via del ritorno verso la piazza principale – luogo che abbiamo deputato degno per desinare perché attrezzato con graziose panchine circondate da verdeggianti aiuole fiorite – ci fermiamo ad un bar con tavolini per acquistare delle cartoline. Mentre sosto nella piazzetta antistante, i miei occhi sono attratti da due opere in terracotta: la prima è modellata come una fanciulla di ascendenza greca o romana, ma la seconda, sembra un chimerico collage antropomorfo; ogni punto di vista offre muscoli tesi, occhi e bocche che si spalancano grotteschi, tranne sul retro dell’opera, dov’è modellata una pergamena con strane lettere, un po’ latine, un po’ etrusche e un po’ runiche. Non so cosa questo magma ribollente di carni e brandelli umani voglia dire. La targhetta accanto all’opera riporta un titolo che non mi è d’aiuto: “Dove vai?”, di Piero Calamai.

«Nel paese, per le strade, sono esposte molte sue opere; come anche quelle di Thomas Lange, un’artista tedesco che ha deciso di venire a vivere qui. È famoso sa? Le sue opere sono state esposte al Guggenheim di New York».

Sollevo lo sguardo e scopro che il mio interlocutore è un signore seduto a uno dei tavolini.

«Se si affaccia da quella balaustra, potrà vedere tante maschere attaccate ad un muro».

Seguo la sua indicazione e scorgo tanti volti di terracotta dalle fogge più diverse: giovani, anziani, uomini donne, italiani, stranieri.

«Con quest’opera l’artista voleva raffigurare la comunità degli abitanti di Torre Alfina. Invece, se sale la strada che porta al castello, troverà una casa sul cui tetto Lange ha rappresentato la caduta di Lucifero».

A quelle parole mi ritornano immediatamente in mente le inquietanti gambe del manichino conficcate nel tetto che avevo notato quella mattina. Ecco cos’erano!

Ringrazio il signore per le preziose informazioni e visto che anche Vittoria e il marito sono riemersi dal bar, proseguiamo il nostro cammino verso la piazza principale per quella che mi sembra una delle vie più graziose e pittoresche del borgo: via Cahen. Qui molti dei numeri civici sono riportati su maioliche dipinte a mano, ciascuna raffigurante una diversa veduta del castello. Sono tutte dei piccoli, pittoreschi capolavori, che scandendo il nostro percorso, ci conducono alla meta.

Una volta terminato il pranzo e fatta una rapida sosta gelato, incontriamo la guida che ci condurrà a scoprire la natura lussureggiante e i segreti che cela il Bosco del Sasseto.

Il Bosco del Sasseto

Dopo aver mosso appena qualche passo sul sentiero, ci troviamo il cammino “sbarrato” da un albero. In realtà, sebbene il tronco si protenda trasversalmente sul sentiero, non è affatto disagevole oltrepassarlo passandoci sotto. E la nostra guida ci spiega quale importanza simbolica abbia quell’albero; infatti, nonostante sia caduto e, in parte, sradicato, continua a vivere, mostrandoci come in natura la perfezione sta nella capacità di ogni essere vivente di adattarsi e armonizzarsi con ciò che lo circonda.

Ci spiega che questo è un esempio di bosco quasi unico nel suo genere, perché praticamente inviolato dall’opera umana; infatti, salvo minuscoli interventi del Marchese Cahen per realizzare dei piccoli “sentieri” che lo rendessero percorribile, il bosco, essendo sempre rimasto di proprietà dei vari signori del castello, che lo utilizzavano come riserva di caccia, ha conservato intatto il suo meraviglioso aspetto originale.

E proprio per questo motivo, vanta una ricchezza e peculiarità di esemplari arborei e faunistici che è raro trovare altrove. Qui un albero può seccare o marcire in pace senza che venga rimosso. Anche perché alcune specie di uccelli, come il picchio rosso minore, nidificano solo negli alberi secchi, e insetti come il maestoso cervo volante – ormai in via d’estinzione – vivono e si riproducono solo in un habitat di flora putrescente. La natura non è stata immaginata perché l’uomo se ne prendesse cura, e senza alcuni interventi umani sarebbe di certo più prospera e florida; è un meccanismo circolare perfetto che dalla vita conduce alla morte e dalla morta alla vita.

Ok, ci do un taglio con le citazioni del “Re Leone”.

Comunque, più ci inoltriamo all’interno della vegetazione, più ci sembra di addentrarci nel mondo delle fiabe. Forse proprio per questo il Bosco del Sasseto è stato scelto da Matteo Garrone per girare la scena della caccia, in cui il re – interpretato da Vincent Cassel – incontra Dora, l’anziana donna tornata giovane e bella dopo aver bevuto il latte di strega ne “Il racconto dei racconti”. Tutto qui ispira incanto e magia: un gruppo di massi levigati ricoperti di umido muschio immagino possano rivelarsi i simpatici troll di “Frozen” da un momento all’altro, poco più avanti, un albero il cui tronco scuro si biparte in due grossi rami assume le sembianze di un minaccioso minotauro, mentre un albero dall’ampio tronco completamente cavo sembra essere il camino di un’abitazione di gnomi.

Al termine di questo percorso incantato, gli alberi si fanno da parte facendo spazio a una radura erbosa, in cui sorge una costruzione gotica, resa ancor più suggestiva dal cielo plumbeo. E la riconosco, è la tomba di Cahen, cui l’intero bosco sembra aver reso omaggio ritraendosi ossequiosamente.

Tomba di Cahen

Chissà che spettacolo inquietante dev’essere stato quello del suo corteo funebre

La guida ci spiega, infatti, che il Marchese era un amante e un cultore delle nuove tecnologie e, nelle sue ultime volontà, aveva espressamente chiesto che il suo carro funebre non fosse trainato da cavalli, bensì grazie a un motore a vapore. Immagino che spettacolo pauroso e raccapricciante potesse essere – nel 1894 – all’avvento di questa tecnologia – vedere il carro con il feretro, nero come uno scarafaggio gigante che procede avvolto in fumanti sbuffi di vapore.

Mentre ci allontaniamo in silenzio da quel luogo di riposo eterno, la mente mi riporta la melodia “Lacrimosa” delle Kalafina.

Appena emersi dall’incanto del bosco, veniamo accolti dall’ennesimo scroscio di pioggia della giornata, mentre ci incamminiamo, finalmente, a visitare l’interno del Castello di Cahen.

Il Castello di Cahen

Veniamo così a conoscenza che, come quasi sempre accade, la fondazione originale era molto meno estesa dell’attuale complesso, che risaliva all’VIII secolo e che inizialmente rivestiva un ruolo difensivo. A Sforza Monaldeschi della Cervara – famoso uomo d’armi vissuto alla metà del Cinquecento – si deve l’iniziativa di trasformare l’antica struttura fortificata in elegante residenza di campagna sul modello rinascimentale. Invece al Marchese Cahen – che nel 1880 acquistò il castello e il bosco circostante – è dovuto il volto neogotico che caratterizza l’esterno del castello, conferendogli un fascino antico e tenebroso, anche grazie all’utilizzo della pietra grigia di Bagnoregio.

Tra gli ospiti illustri dei Cahen, il castello annovera Gabriele d’Annunzio e la sua Eleonora Duse, che vi soggiornavano periodicamente in una stanza a loro riservata. Al poeta il Marchese dedicò persino un omaggio pittorico, ritraendo, su una parete della sua dimora, una scena tratta dal suo poema tragico “Sogno d’un tramonto d’autunno”. La scena è permeata dal fascino romantico ed estetizzante che solo lui riusciva a conferire ad un’opera letteraria.

Mentre visitiamo con occhi curiosi questa fastosa dimora, non posso non pensare a quanto sia, tra l’arredamento, le decorazioni pittoriche e scultoree, un curioso e piacevole Tetris creato con elementi medievali, rinascimentali, barocchi, liberty e neogotici. Questo ricco pot-pourri stilistico credo sia decisamente unico curioso ed estremamente stimolante. La mia mente è in fibrillazione come una baccante!

Al termine della visita, porgiamo un ultimo saluto di congedo all’imponente statua di Apollo che ci aveva accolti all’ingresso e ci avviamo verso il parcheggio per riprendere le nostre Popy car.

Buoni propositi e pettegolezzi

Abbiamo appreso troppo tardi che nel borgo esiste anche un museo dedicato al fiore e che, poco distante dal castello sorgono un vecchio mulino, un ponte romano e una splendida villa liberty, costruita per volontà del figlio del Marchese Cahen.

Purtroppo ormai è ora di rimettersi in viaggio verso casa ma la voglia di visitare questi luoghi, unita al desiderio di ammirare il volto del Bosco del Sasseto nelle altre stagioni è uno sprone sufficientemente forte per promettere a me stessa di tornare in questi posti ricchi di fascino e incanto.

P.S. L’ultimo proprietario del castello è stato Luciano Gaucci. Se ve lo state chiedendo, sì, è quello che è stato presidente del Perugia – in cui ha fatto giocare anche il figlio di Gheddafi – in seguito indagato per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta, che è morto proprio quest’anno a Santo Domingo. Il castello è stato pignorato e messo all’asta. Per questo gioiellino si parte da un’offerta base di 8,3 milioni di euro; volevo comunicarvelo perché mi sembra un’occasione da non perdere!

About Author

Sabrina Amato

Sabrina ama l’arte, così tanto da prendersi due lauree per avere ancor più motivi per amarla. Prova un fascino irresistibile per tutto ciò che non conosce, che sia profondo o lontano, e quindi adora l’acqua, nuotare, il mare e gli oceani, ma adora anche le danze orientali e le arti marziali. Nerd con la passione per il vintage, nel tempo libero partecipa come miss agli eventi del Miss Pin Up WW2 e ad ogni Romics come cosplayer. Sa resistere a tutto tranne alle tentazioni, ai gatti, ai cartoni animati e ai libri.

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