Recensione di “Thunderbolts*”: Marvel racconta il dolore degli antieroi e la forza delle cicatrici condivise in un film (finalmente) riuscito
Recensione di Thunderbolts*: Marvel racconta il dolore degli antieroi e la forza delle cicatrici condivise in un film (finalmente)

In un Marvel Cinematic Universe sempre più frammentato tra colossali battaglie cosmiche e drammi multiversali, Thunderbolts* si ritaglia uno spazio sorprendentemente intimo e umano. Diretto con mano sicura da Jake Schreier, il film riunisce un manipolo di antieroi spezzati, offrendo non solo azione adrenalinica, ma anche una meditazione profonda su trauma, redenzione e amicizia.
Il fascino eterno degli antieroi
Perché il pubblico non riesce a resistere al richiamo degli antieroi? Thunderbolts* risponde a questa domanda mostrando quanto siano attraenti le crepe, le ambiguità morali, le battaglie interiori dei suoi protagonisti. Yelena Belova (Florence Pugh, sempre più magnetica), Bucky Barnes (Sebastian Stan, perfettamente in parte), Red Guardian (David Harbour, ironico e malinconico) e gli altri membri del team non aspirano a essere eroi senza macchia. Sono individui segnati da errori irreparabili, da sensi di colpa incancellabili, da solitudini troppo rumorose per essere ignorate.
La forza narrativa del film risiede proprio nella complessità di questi personaggi: è facile empatizzare con chi sa di non essere perfetto, con chi combatte prima di tutto contro se stesso. In un’epoca di disillusione collettiva, gli antieroi rappresentano un riflesso autentico delle nostre fragilità più profonde. E quando li vediamo lottare – nonostante tutto – per qualcosa o qualcuno, la loro battaglia diventa anche la nostra.
La psicanalisi delle cicatrici
Se c’è un tema che attraversa ogni frame di Thunderbolts*, è quello del trauma condiviso. Ognuno dei protagonisti porta addosso una ferita che sembra inguaribile: lutti, tradimenti, colpe che bruciano sotto la pelle. Ma il film non si limita a mostrarci la sofferenza individuale. Schreier costruisce un racconto corale in cui emerge con forza l’idea che affrontare i propri demoni è possibile solo quando si smette di combattere da soli.
Il personaggio di Bob (Lewis Pullman) è emblematico: dotato di poteri fuori scala, ma intrappolato in una depressione paralizzante, incarna il dilemma di chi teme di essere definito solo dai propri fallimenti. La sua evoluzione nel gruppo mostra come l’appoggio degli altri – anche di chi è altrettanto rotto – possa diventare una àncora di salvezza.
Thunderbolts* non si limita a sfiorare la superficie dei temi psicologici: scava con delicatezza, evitando la retorica facile. Il risultato è un affresco doloroso ma pieno di speranza, che celebra la vulnerabilità come un atto di coraggio.
Un film Marvel finalmente riuscito
In un panorama Marvel che ha spesso privilegiato lo spettacolo sopra la sostanza, Thunderbolts* rappresenta una virata coraggiosa verso un racconto più intimo e adulto. Non rinuncia all’azione (le sequenze di combattimento sono visivamente potenti e ben coreografate), ma a restare impressi sono i silenzi, gli sguardi, i piccoli gesti di solidarietà tra outsider.
Con una regia sobria, una sceneggiatura che sa dosare umorismo e tragedia, e un cast in stato di grazia, Thunderbolts* riesce dove molti film corali falliscono: dare a ogni personaggio spazio per respirare, per sbagliare, per crescere.
In definitiva Thunderbolts* è un film che, senza rinnegare il DNA spettacolare della Marvel, osa andare più a fondo, raccontando che la vera forza non è l’invulnerabilità, ma la capacità di restare in piedi anche quando il mondo ti ha spezzato. E, magari, di farlo insieme agli altri.