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Recensione di “SQUALI” di Alberto Rizzi: quando il male ha le radici nel sangue e il respiro nei boschi

Recensione di “Squali” di Alberto Rizzi, ispirato a "I fratelli Karamazov": quando il male ha le radici nel sangue

Recensione di “SQUALI” di Alberto Rizzi: quando il male ha le radici nel sangue e il respiro nei boschi

Certe famiglie non si sfaldano: si sbranano.

Non ci sono eroi tra le montagne di Squali, solo denti affilati e sguardi bassi, anime in bilico tra la redenzione e il baratro. Alberto Rizzi firma un film che non cerca di piacere a tutti, ma pretende attenzione, come un urlo soffocato che ti arriva dritto nello stomaco.

Liberamente ispirato a I fratelli Karamazov, Squali si muove come un western anomalo, sradicato dalla polvere delle praterie americane e trapiantato nei paesaggi ruvidi e lividi dei Monti Lessini, dove il tempo sembra essersi fermato. Ma se i riferimenti letterari possono spaventare, qui non c’è nulla di accademico o polveroso. Rizzi prende Dostoevskij e lo lancia nel fango, lo contamina con i detriti del presente, lo plasma attraverso un’estetica personale che guarda al cinema di frontiera, a certi accenti visivi alla Vinterberg, alla tensione morale del primo Haneke, ma anche a suggestioni tutte italiane, perfino pasoliniane.

Una tragedia senza tempo (ma profondamente attuale)

Squali è un film di padri e figli, di fratelli nemici e sorelle dimenticate. Una tragedia greca travestita da saga familiare del Nord-Est, dove il patriarca Leone Camaso (un Mirko Artuso intenso, viscido, perfettamente detestabile) si erge come un dio stanco e meschino, catalizzatore di rancori, traumi e vendette. I suoi figli – tre fratellastri e una sorellastra – tornano a casa dopo anni, ognuno trascinandosi un fallimento: Demetrio, ex militare fallito e aggressivo; Ivan, sportivo a fine corsa, ossessionato dalla sua ex; Alessio, il seminarista alla deriva; e Sveva, l’unica donna, l’unica con ancora una scintilla di futuro, o forse di disperazione.

Il film non ha paura di sporcarsi. La sua forza sta nell’aderenza viscerale ai personaggi, nell’andare a fondo, anche quando fa male. Le dinamiche tra i fratelli sono tese, violente, a tratti disturbanti. Ma non è mai una violenza gratuita: è sempre radicata, necessaria, come se fosse l’unico linguaggio possibile tra chi ha dimenticato come si parla davvero.

Immagini pittoriche e regia elegante

Rizzi non si nasconde dietro il minimalismo: Squali è un film denso, visivamente costruito con precisione maniacale. Le inquadrature hanno qualcosa di pittorico, i movimenti di macchina sono eleganti ma mai leziosi. La natura diventa parte della narrazione, mai semplice sfondo. C’è un senso costante di gelo, di isolamento, di minaccia che viene dalla terra stessa, dalla pietra, dal legno marcio di quella casa che sembra inghiottire chiunque vi entri.

La luce scolpisce i volti, mette a nudo i pensieri. E in quel gioco di chiaroscuri, il male non ha bisogno di urlare: basta uno sguardo, un silenzio troppo lungo, un dettaglio fuori posto.

Un cast affiatato, sporco di vita

Tutti gli attori sono perfettamente incastonati nel mondo del film. Non c’è una nota fuori posto: ognuno porta con sé la giusta dose di realismo e tormento. Dai fratelli maggiori, carichi di rabbia repressa, alla sorella Sveva – presenza sottilmente inquieta e determinante – ogni personaggio sembra portarsi addosso il peso di una storia che non viene mai detta fino in fondo. Ma si intuisce, si sente, si respira.

Non mancano incursioni nel grottesco, su tutto una sottile e acida ironia, personaggi secondari che sembrano usciti da un sogno febbrile, che contribuiscono a quella sensazione costante di visione sospesa tra il reale e l’onirico. Eppure, Squali è profondamente umano. Un film che sa graffiare, ma anche emozionare. E che ha il coraggio di restare ambiguo fino alla fine.

Alberto Rizzi mette in scena un’Italia che raramente trova spazio al cinema: aspra, dimenticata, vera. Un’Italia che non ha bisogno di effetti speciali per essere disturbante. Gli basta mostrare la famiglia.

E tu, spettatore, ti chiedi: quanto di tutto questo c’è anche nella mia?

About Author

Giovanni Lembo

Giornalista, sceneggiatore, speaker, podcaster, raccontastorie, papà imperfetto. Direttore di Sitopreferito.it e fondatore del Preferito Network. Conduce Preferito Cinema Show su Radio Kaos Italy tutti i martedì alle ore 15, e il podcast L'Edicola del Boomer sulle principali piattaforme. Gli piacciono i social, i fumetti, le belle storie, scrivere di notte con la musica nelle orecchie, vedere un sacco di film e sognare ad occhi aperti.

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