Recensione di “Per amore di una donna” di Guido Chiesa, liberamente ispirato al romanzo di Meir Shalev
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“Per amore di una donna” di Guido Chiesa, viaggio a ritroso nel tempo
Siamo negli States alla fine degli anni ’70: una donna assiste la madre morente, con cui dalle prime battute si evince non aver avuto un rapporto idilliaco e dalla quale riceve una fotografia parzialmente strappata risalente a molti decenni prima. Per scoprirne il significato la protagonista parte per Israele, lì dove affondano le sue origini. Sarà un viaggio denso di sorprese e di scoperte, un continuo perdersi nelle pieghe del passato fino all’inattesa rivelazione finale, di cui qui naturalmente si tace.
Sarà nelle sale il 29 maggio prossimo Per amore di una donna, diretto da Guido Chiesa e distribuito da Fandango. Il film, nel suo genere inusuale per il regista, é liberamente ispirato al romanzo di Meir Shalev, scrittore, conduttore televisivo ed umorista di nazionalità israeliana.
Una donna libera nell’epopea dei primi coloni ebrei
Viste le premesse, la vicenda non poteva che svilupparsi con ampiezza, ed in parallelo con il tempo presente, in un’epoca precedente: quella dell’insediamento dei primi coloni ebrei in terra di Palestina (siamo negli anni ’30), su concessione dell’allora governo britannico, che porterà nel 1948 alla fondazione dello stato d’Israele.
Non si tratta di semplici flash-back, ma di piani narrativi che procedono a braccetto in un’alternanza funzionale al racconto. E’ di questa epopea che fa parte quella che si potrebbe definire la seconda protagonista, una donna amata contemporaneamente da tre uomini ma che non perde occasione di rivendicare la libertà delle proprie scelte e l’appartenenza unicamente a se stessa. Una figura femminile decisamente anacronistica rispetto al periodo in cui é vissuta ma non per questo del tutto improbabile, e comunque ritratta dalla regìa con precisione introspettiva.
Un cast molto variopinto
Il regista si é avvalso nell’occasione di un cast piuttosto variegato: dall’israeliana Mili Avital alla rumena Ana Ularu, dall’israeliano Ori Pfeffer al tedesco Marc Rissmann, quasi a sottolineare il tema conduttore che lui stesso rivendica al suo film, ovvero l’universalità dell’amore. A tutte le latitudini, in ogni epoca e a prescindere da qualunque differenza culturale o religiosa.
Il prodotto, politicamente molto “corretto” – una sorta di operazione-simpatia nei confronti di un Paese che di simpatie se ne sta alienando a dismisura – si fa apprezzare per una ricostruzione storica accurata e per una narrazione gradevole e a ritmi sostenuti, con soggetto e sceneggiatura che in più di un’occasione sembrano usciti dalla penna di una Isabel Allende o di un Garcia Marquez.
Foto di di Vincezo Aluia