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Recensione di “La città proibita” di Gabriele Mainetti: il kung fu incontra Roma, tra armonia e contrasti

Segui Email Gabriele Mainetti non è mai stato un regista convenzionale. Fin dal suo esordio con Lo chiamavano Jeeg

Recensione di “La città proibita” di Gabriele Mainetti: il kung fu incontra Roma, tra armonia e contrasti

Gabriele Mainetti non è mai stato un regista convenzionale. Fin dal suo esordio con Lo chiamavano Jeeg Robot, ha dimostrato di saper mescolare generi apparentemente inconciliabili, reinventando il linguaggio del cinema italiano. Con Freaks Out ha osato ancora di più, portando il fantastico nel cuore della storia italiana. Ora, con La città proibita, tenta la sua impresa più audace: far dialogare il cinema d’azione di Hong Kong con l’anima più cruda e viscerale della periferia romana.

Il risultato è un film che, quando trova il giusto equilibrio, è straordinario, con scene d’azione che sembrano uscite dai migliori action honkonghesi e un’ambientazione romana sfruttata con intelligenza. Tuttavia, non sempre le due anime del film si fondono con naturalezza: a tratti sembra di assistere a due film distinti, uno di lotta e vendetta silenziosa, l’altro di dramma familiare e degrado urbano con venature fin troppo macchiettistiche.

È proprio questa discontinuità a rappresentare il limite più evidente di un’opera comunque ambiziosa e affascinante, sicuramente da sostenere.

Un kung-fu movie nelle strade di Roma

La storia segue Mei (Yaxi Liu), giovane esperta di arti marziali che arriva a Roma alla ricerca della sorella scomparsa. La sua indagine la porta al ristorante “da Alfredo”, gestito da Marcello (Enrico Borello) e sua madre Lorena (Sabrina Ferilli), una famiglia romana alle prese con i debiti lasciati da Alfredo (Luca Zingaretti), sparito senza lasciare traccia. Il destino di Mei e quello di Marcello sono destinati ad intrecciarsi.

Fin dai primi minuti, La città proibita chiarisce la sua doppia natura: una narrazione radicata nella realtà sociale romana, affiancata a una messa in scena che attinge a piene mani dall’estetica e dalla grammatica del cinema di Hong Kong. Mainetti guarda ai maestri dell’azione orientale, e il film respira influenze che vanno dai film di Donnie Yen o Jet Li, con l’estetica alla Wong Kar-wai e Zhang Yimou (tra neon colorati e una palette di colori alla Christopher Doyle).

Ma se nei migliori film di Hong Kong la violenza e il dramma si fondono in un unico linguaggio, qui il confine tra i due mondi è più netto. I momenti di lotta sono pura estetica marziale: Mei è un’assassina silenziosa, letale e quasi irreale, con movimenti che sembrano scolpiti nell’aria. Quando il film si immerge in questa dimensione, è spettacolare. Ma quando si torna alla Roma della quotidianità, di quel microcosmo romano così folkloristico e a tratti irreale, l’energia cambia improvvisamente, e il passaggio tra un registro e l’altro non è fluido.

L’azione: tra arte marziale e violenza urbana

Le sequenze d’azione sono ottimamente coreografate, e qui Mainetti non delude. Le coreografie sono precise e spettacolari, con un uso sapiente del corpo e dello spazio. Mei –  interpretata da una silente e letale Yaxi Liu, già controfigura della protagonista nel live action Mulan) combatte con una grazia quasi ultraterrena, e vederla combattere, in spazi limitati, usando quello che ha a disposizione intorno a lei, eleva lo spettacolo. Mainetti ha studiato, e si vede.

Il personaggio di Mei è un elemento che richiama il cinema di Hong Kong, le “assassine silenziose” tipiche del wuxia e del crime action asiatico. Mei non è solo una combattente, ma un simbolo di vendetta e perdita, una figura che sembra venire da un altro mondo rispetto alla Roma dei vicoli e dei mercati.

Nel contrasto tra la Roma quotidiana e la dimensione quasi mitologica di Mei, gli attori italiani danno vita a un’umanità riconoscibile e familiare, ma a tratti esagerata. Sabrina Ferilli, nel ruolo di Lorena, incarna con intensità la madre romana combattiva e verace, ma il suo personaggio rischia di scivolare nello stereotipo della donna del popolo, sempre sopra le righe. Lo stesso vale per Enrico Borello, il cui Marcello alterna momenti di autenticità a espressioni eccessivamente marcate, quasi da commedia. Apprezzabile il fatto di voler costruire un esempio di uomo “fragile” e reale, esatto opposto del macho coatto romano, un uomo al passo con i tempi, ma tutta la linea narrativa della “storia d’amore” con tanto di passeggiata romana appare troppo “slegata” a quello della vicenda principale.  Marco Giallini e Luca Zingaretti, pur regalando prove solide, sono costruiti su archetipi ben definiti e riconoscibili. Questa caratterizzazione spinge la Roma di La città proibita verso una rappresentazione che, invece di essere una versione realistica della città, tende a teatralizzarla, rendendola quasi una caricatura nei momenti meno riusciti del film.

Una scommessa imperfetta, ma necessaria

Nel panorama del cinema italiano, un film come La città proibita è una boccata d’aria fresca. Mainetti continua a dimostrare che il nostro cinema può osare, sperimentare e guardare oltre i confini tradizionali. Anche con i suoi difetti, è un’opera che merita di essere vista, perché è un raro esempio di ambizione e coraggio.

Non è un film perfetto, ma nel suo tentativo di creare qualcosa di nuovo, lascia il segno.

Foto: Andrea Pirrello

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Giovanni Lembo

Giornalista, sceneggiatore, speaker, podcaster, raccontastorie, papà imperfetto. Direttore di Sitopreferito.it e fondatore del Preferito Network. Conduce Preferito Cinema Show su Radio Kaos Italy tutti i martedì alle ore 15, e il podcast L'Edicola del Boomer sulle principali piattaforme. Gli piacciono i social, i fumetti, le belle storie, scrivere di notte con la musica nelle orecchie, vedere un sacco di film e sognare ad occhi aperti.

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