Recensione di “La bambina che raccontava i film”, di Lone Scherfig: il potere del racconto, l’amore per il cinema
Segui Email Nel deserto di Atacama, dove la terra arida si estende a perdita d’occhio e il cielo notturno

La protagonista, María Margarita, è la più piccola di quattro fratelli. Con uno sguardo che buca lo schermo, viene interpretata da Alondra Valenzuela (nella versione infantile) e da Sara Becker (nell’età adulta), entrambe capaci di restituire una gamma emotiva ampia senza mai indulgere nel patetico.
Quando il padre, Medardo (un intenso Antonio de la Torre), rimane paralizzato dopo un incidente in miniera, la famiglia è costretta a rinunciare a molte cose. Compreso il cinema. Ma proprio da questa rinuncia nasce un gesto rivoluzionario: ogni settimana, un solo figlio potrà andare al cinema, per poi raccontare agli altri il film visto. La scelta ricade su María Margarita, che si scopre una narratrice straordinaria, capace di trasformare ogni proiezione in un’esperienza collettiva viva, emozionante, memorabile.
Un film sul potere del racconto, sull’oralità come patrimonio culturale
La bambina che raccontava i film non si limita a raccontare l’amore per il cinema: lo mette in scena, lo fa rivivere attraverso le parole. María Margarita non riferisce semplicemente la trama, ma interpreta, evoca, incanta. Le sue narrazioni diventano appuntamenti imperdibili per tutto il villaggio, un’alternativa alla proiezione, ma anche un modo nuovo di fruire il cinema. Un’esperienza orale che rimanda a una tradizione antichissima, ma che qui si fonde con l’estetica moderna e con la cinefilia più sincera.
Il personaggio della madre, María Magnolia (una Bérénice Bejo in stato di grazia), aggiunge un livello emotivo ancora più profondo. Madre coraggio, donna spigolosa e tenera insieme, incarna il dilemma di chi vorrebbe proteggere i propri figli dalla durezza della vita, ma sa di doverli lasciare crescere anche attraverso il dolore.
Un tocco internazionale in un racconto profondamente cileno
L’ingresso di Daniel Brühl nei panni dell’enigmatico Hauser introduce una dimensione ulteriore: quella dell’altro, dello sguardo straniero che può rappresentare tanto la salvezza quanto la minaccia. Il suo personaggio è ambivalente e affascinante, esattamente come la Storia che sta per travolgere il Cile con il colpo di stato del 1973.
Ed è qui che La bambina che raccontava i film si fa anche film politico, ma senza mai diventare didascalico. La regia di Lone Scherfig si muove su un filo sottile, mantenendo sempre il focus sull’intimità dei personaggi. La cornice storica è potente, ma mai invadente.
Una regia minimalista per una storia visivamente ricchissima
La direzione artistica è uno dei punti di forza del film. La fotografia firmata da Daniel Aranyó è magnetica: alterna i colori ocra e ruggine del deserto di Atacama con le ombre morbide e dense delle sale cinematografiche. Ogni inquadratura è un contrasto visivo tra realtà e immaginazione, tra il presente polveroso e la promessa di un altrove.
Le musiche, gli elementi scenici, perfino l’uso di spezzoni di film classici come Colazione da Tiffany, Scarface e L’appartamento, non sono mai inseriti per fare “citazione” ma per costruire senso. Quei frammenti diventano parte della memoria collettiva, veicolata dalla voce di una bambina che, senza rendersene conto, tiene viva la cultura in un luogo altrimenti dimenticato.
Un film da vedere per chi ama il cinema sul cinema
Il paragone con Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore è inevitabile, ma riduttivo. Se il capolavoro italiano abbraccia la nostalgia, La bambina che raccontava i film ha uno sguardo più complesso, stratificato. Non idealizza il passato, ma lo esplora nelle sue contraddizioni. Non celebra solo la magia del cinema, ma ne mostra anche i limiti come strumento di evasione, sottolineando la responsabilità del racconto nel plasmare una coscienza.
La bambina che raccontava i film è uno di quei film che ti ricorda perché amiamo il cinema: perché riesce, in modi misteriosi e meravigliosi, a trasformare il dolore in bellezza, la solitudine in condivisione, la realtà in immaginazione.