Recensione de “L’amore che ho” di Paolo Licata, un omaggio a Rosa Balistreri
Recensione de "L'amore che ho" di Paolo Licata, un omaggio sentito alla "cantastorie" Rosa Balistreri, tra folk siciliano e

Nella Sicilia ancora quasi arcaica degli anni ’30 del secolo scorso una bambina viene svegliata ogni mattina all’alba dal padre. Ma non per andare a scuola, il suo compito è lavorare come bracciante insieme al genitore, pur senza chinare la testa di fronte ai padroni: glielo impedisce la sua precoce indole ribelle alla sopraffazione ed allo sfruttamento.
Questa bambina, irresistibilmente attratta dall’arte dei cantastorie, è Rosa Balistreri, destinata ad affermarsi come una delle massime espressioni di un folk siciliano coraggiosamente votato alla denuncia sociale. A lei il regista Paolo Licata, alla sua opera seconda, dedica “L’amore che ho“, ispirato al libro scritto dal nipote della cantante Luca Torregrossa e in uscita il prossimo 8 maggio.
Il tramonto di un’artista
La donna dimessa ed invecchiata al di là della sua età anagrafica che compare all’esordio del film, confinata in una stanzetta fatiscente in compagnia delle fotografie di una vita, è la pallida memoria di un’artista improvvisamente dimenticata dal suo pubblico. Ma è un tramonto annunciato contro cui Rosa reagisce con la forza di chi è convinto di aver ancora qualcosa da dire con la sua voce e la sua fedele chitarra, non senza dare nel contempo la stura ai ricordi affastellati nella sua mente.
E’ da qui che prende le mosse il regista per elaborare il ritratto di una donna le cui vicende personali hanno avuto la sofferenza come indesiderata e costante compagna.
Un montaggio quasi “tarantiniano”
La narrazione, inevitabilmente vista la premessa, procede con una nutrita serie di flash-back con continui balzi temporali (quasi uno stream of consciousness della protagonista), fino alla sistemazione di ogni tassello in un puzzle compiuto.
Il montaggio appare quindi estremamente elaborato, se non ardito, quasi alla maniera tarantiniana, rischiando in qualche circostanza di disorientare pur se temporaneamente lo spettatore. E’ l’unico appunto che ci si sente di muovere ad un prodotto per il resto dignitoso che non manca di offrire un affresco veridico di un’epoca, e soprattutto di un ambiente, in cui il generale stato di emarginazione ed in particolare il ruolo subalterno delle donne sembravano immutabili.
Un cast tutto al femminile
La preponderanza di volti femminili nella narrazione é naturalmente funzionale alla riproduzione delle diverse età della cantante siciliana: Lucia Sardo é la Rosa degli anni ’90, Donatella Finocchiaro quelli degli anni ’60, Anita Pomario quella degli anni ’40.
In aggiunta un cameo di Carmen Consoli, tra l’altro autrice delle musiche. Quanto ai ruoli maschili, con menzione per Vincenzo Ferrera nei panni del padre, appaiono piuttosto defilati salvo guadagnare il primo piano quando la loro condizione di uomini “dominanti” del tempo li porta a liberare tutta la loro carica vessatoria ai danni delle donne che hanno intorno.