La prima cosa che si nota nel rivedere oggi il capolavoro di Kiyoshi Kurosawa, è il fatto che Cure sceglie il silenzio. Sceglie il tempo. Sceglie il vuoto. Questo film non urla, sussurra. Non mostra, insinua. E proprio per questo, fa paura sul serio.
È il 1997 e Kiyoshi Kurosawa, regista allora poco noto fuori dal Giappone, firma una delle opere più disturbanti e lucide degli anni ’90. Un film che ha cambiato il modo in cui il cinema giapponese avrebbe raccontato l’orrore da lì in avanti.
Kiyoshi Kurosawa: il maestro del perturbante
Nonostante l’omonimia illustre, Kiyoshi Kurosawa non ha nulla a che vedere con Akira Kurosawa. Eppure, anche lui è un autore capace di trasformare il cinema giapponese, pur partendo da coordinate completamente diverse. Nato nel 1955, inizia la sua carriera negli anni ’80 tra piccoli film indipendenti, polizieschi e horror a basso budget. È un regista coltissimo, profondamente influenzato da Fritz Lang, Stanley Kubrick e Roman Polanski, ma con uno sguardo profondamente nipponico, capace di fondere il noir con la psiche, la paura con l’alienazione urbana.
Prima di Cure, Kurosawa aveva già diretto diversi film, ma è con quest’opera che la critica internazionale inizia davvero a notarlo. Dopo Cure, la sua carriera decolla: realizza capolavori come Pulse (Kairo, 2001), altro pilastro dell’horror esistenziale, e Tokyo Sonata (2008), un dramma familiare che lo consacra a Cannes, dove vince il Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard. Più recentemente, con film come Creepy (2016) e Wife of a Spy (2020), continua a scavare nei territori ambigui della mente e della memoria.

Il virus dell’ipnosi
Takabe, il protagonista, interpretato magistralmente da Kōji Yakusho (recentemente protagonista del pluripremiato film di Wim Wenders, Perfect Day), è un detective stanco, logorato, che indaga su una serie di omicidi efferati: tutte le vittime hanno una X incisa sul petto, ma gli assassini non ricordano nulla. Il trait d’union sembra essere Mamiya, un giovane dall’identità sfuggente, capace di insinuarsi nella mente delle persone e spingerle a uccidere. Ma Cure non è un thriller investigativo in senso classico. Non cerca una soluzione, ma una domanda: che cos’è il male? È un’epidemia? È dentro di noi? Oppure basta solo che qualcuno accenda la miccia?
Ciò che distingue Cure dai tradizionali film horror è il suo approccio radicalmente minimalista. Kurosawa rinuncia quasi completamente agli effetti speciali, ai jump scare e alle scene esplicitamente violente, preferendo costruire la tensione attraverso lunghi piani sequenza, una fotografia fredda e clinica, e un uso magistrale del silenzio. Gli spazi vuoti, i corridoi deserti, le stanze spoglie diventano manifestazioni fisiche del vuoto esistenziale che permea l’intera narrazione. La violenza, quando mostrata, è breve e scioccante, ma è l’attesa, il non-detto, a generare la vera inquietudine.
Il regista ha dichiarato di essere stato influenzato da Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, ma ha sviluppato un linguaggio cinematografico completamente originale. A differenza di molti horror occidentali, dove il male è spesso incarnato in una figura mostruosa o soprannaturale, in Cure il terrore nasce dalla banalità del quotidiano, dalla possibilità che chiunque, sotto la giusta influenza, possa trasformarsi in un assassino. È un orrore psicologico che risuona con le ansie della società giapponese contemporanea, segnata da episodi di violenza apparentemente immotivata come l’attacco con gas sarin nella metropolitana di Tokyo del 1995 da parte della setta Aum Shinrikyo.
Identità e fragilità
I temi che attraversano il film sono molteplici e stratificati. L’identità e la sua fragilità sono al centro della narrazione: chi siamo veramente quando le nostre difese razionali vengono abbattute? Quanto siamo vulnerabili alla suggestione? Il confine tra normalità e follia si rivela estremamente labile, e la solitudine esistenziale che caratterizza la vita metropolitana diventa terreno fertile per la manipolazione. Mamiya non crea il male dal nulla, ma libera ciò che è già presente nell’inconscio delle sue vittime, come un’eco distorta dei metodi terapeutici freudiani.
Particolarmente significativo è l’uso che Kurosawa fa degli spazi. Gli ambienti sono spesso fatiscenti, in decomposizione, come se la città stessa fosse malata. Le location non sono mai casuali: ospedali psichiatrici abbandonati, tunnel sotterranei, appartamenti claustrofobici diventano estensioni dello stato mentale dei personaggi. La macchina da presa si muove con pazienza in questi spazi, creando un senso di disorientamento che riflette la progressiva perdita di controllo del protagonista.

Un nuovo linguaggio dell’orrore
Cure si inserisce in un momento cruciale per l’evoluzione dell’horror giapponese, anticipando il boom del J-horror che sarebbe esploso negli anni successivi con film come Ring e Ju-on. Kurosawa ha contribuito a definire un nuovo linguaggio dell’orrore, più sottile e psicologico, che avrebbe influenzato non solo il cinema giapponese ma anche quello occidentale. Non è un caso che il film sia considerato parte di una trilogia non ufficiale sul tema della psicologia e dell’orrore, insieme a Pulse (2001) e Bright Future (2003), opere che esplorano ulteriormente il disagio esistenziale nella società contemporanea.
A distanza di oltre venticinque anni dalla sua uscita, Cure mantiene intatta la sua capacità di disturbare e affascinare. Non è solo un film da vedere, ma un’esperienza da attraversare, un viaggio negli abissi della psiche umana che lascia tracce indelebili. In un’epoca in cui l’horror cinematografico tende spesso a privilegiare l’effetto immediato sulla riflessione profonda, l’opera di Kurosawa ci ricorda che il vero terrore non nasce da ciò che vediamo, ma da ciò che intuiamo, non da ciò che ci aggredisce dall’esterno, ma da ciò che si nasconde nelle profondità di noi stessi.
Il film uscirà nelle sale dal 3 aprile grazie alla Double Line in versione restaurata 4K e per la prima volta anche doppiato in una lingua diversa dal giapponese.