Alla scoperta del Labirinto: da Cnosso ai Celti, da Pac-Man fino ad Alice, storia, etimologia, mitologia, di un luogo spesso rappresentato come un dedalo in cui perdersi per ritrovare sé stessi
Segui Email “Nel Labirinto non troverete draghi o creature degli abissi, invece affronterete qualcosa di molto più impegnativo. Vedete,

“Nel Labirinto non troverete draghi o creature degli abissi, invece affronterete qualcosa di molto più impegnativo. Vedete, le persone cambiano nel Labirinto … Oh, trovate la coppa se potete, ma siate molto cauti, potreste perdere voi stessi lungo la strada.”
(Harry Potter e il calice di fuoco)
Cos’è il Labirinto? Un percorso, un viaggio, un intrico di sentieri, una trappola, una caccia al tesoro, la nostra vita, noi stessi?
Devo dirvi la verità, quando ho incominciato le ricerche per scrivere questo articolo, non mi sono resa conto del ginepraio in cui mi stavo cacciando, ma d’altronde neppure Dante si era accorto di essersi addentrato nella selva oscura, e questo pensiero mi è stato di conforto.
Ma ormai ho percorso questo “dedalo” in lungo e in largo, ne ho scoperto tranelli e segreti, quindi permettetemi di farvi da guida in questo nuovo viaggio: sono sicura che ognuno di voi troverà qualcosa, per esempio sé stesso…
In principio era la parola… Labirinto.
Ma la sua etimologia in realtà non è ben chiara: un’interpretazione sembra ricondurre la parola Labirinto al greco λαβύρινθος (labýrinthos), usato nella mitologia per indicare il Labirinto di Cnosso. La parola, di origine pre-greca, trae la sua derivazione dal lidio labrys – bipenne – l’ascia a due lame, simbolo del potere reale a Creta. La parola “Labirinto“ significherebbe, quindi, “palazzo dell’ascia labrys” con il suffisso -into a significare “luogo” cioè il palazzo del re Minosse a Cnosso, caratterizzato dalla pianta intricata all’interno del quale sono state rinvenute diverse raffigurazioni dell’ascia bipenne.
Ma la parola Labirinto potrebbe derivare anche dalla radice greca laf- di làfas da cui il latino lapis – pietra – per indicare le caverne e le cave di metalli il cui intricato percorso fa perdere il senso dell’orientamento; oppure dal greco λαβιριον (làbirion) cioè cunicolo scavato nel sottosuolo, che si dirama in varie direzioni o da λαβιρος (làbiros) che significa cavità, o ancora dal greco λαμβάνω (lambàno) – prendo – e ρινάω (rinào) – inganno – cioè “cado in inganno”, appunto per la conformazione inestricabile ed ingannevole propria del Labirinto. Una derivazione potremmo trarla persino dalla lingua egeo-anatolica: leberhís, ossia coniglio, per indicate, appunto la tana di questo animale che scava intricati cunicoli sotterranei. Una delle più recenti e affascinanti interpretazioni etimologiche ce la fornisce lo storico dell’arte Paul de Saint-Hilaire secondo cui la parola Labirinto, sempre derivandola dal greco, significherebbe “la danza del pesce prigioniero della nassa”. Come potete vedere ce n’è per tutti i gusti!
Qualcuno potrebbe inizialmente pensare che i labirinti che vedremo hanno scopi diversi, ma questo è solo il loro aspetto superficiale, tutti in realtà hanno lo stesso fine. Ma non corriamo, siamo in un Labirinto, e accelerare il passo non è detto che ci permetta di uscirne prima.
I primi labirinti potrebbero risalire all’età del bronzo e poiché lo stesso simbolo era conosciuto già millenni, o almeno secoli prima di Cristo in quasi tutti i continenti, è ragionevole supporre che sia nato indipendentemente, nello stesso periodo preistorico presso popoli diversi.
Il Labirinto dell’antichità più famoso in assoluto è di sicuro quello del palazzo di Cnosso a Creta – III-II millennio a. C. – ideato dal leggendario inventore e architetto Dedalo. Eppure ce ne sono anche altri meno famosi, ma altrettanto affascinanti: il Labirinto di Meride e quello di Porsenna.
Il Labirinto di Meride, costruito in Egitto ad Hawara presso il lago di Meride nel Fayyum, è una costruzione labirintica parte integrante del tempio funerario di Amenemhat III (1842-1797 a.C.), come scrisse lo storico greco Manetone:
«[…] Egli costruì il Labirinto nel nomo di Arsinoe, come tomba per sé.»
L’area nella quale fu costruito, a sud della piramide di Amenemhat III, doveva aggirarsi intorno ai 70.000 m² su questi furono edificate 3.000 stanze in due piani, uno dei quali sotterraneo, e dodici cortili. Sembra che il suo scopo principale fosse di tipo religioso. Storici antichi hanno descritto il Labirinto, quali Diodoro Siculo, Strabone ed Erodoto, di cui purtroppo ci sono pervenuti solo pochi frammenti. Il Labirinto fu scoperto nel 1888 dall’egittologo e archeologo britannico Flinders Petrie che lo esplorò prima e durante il 1911 e dove rinvenne i nomi di Amenemhat III e della figlia Sebeknofru.
Il Labirinto di Porsenna invece, deriva il suo nome dalla descrizione di Plinio il Vecchio – che cita Terenzio Varrone – del mausoleo di Porsenna, il leggendario sepolcro del sovrano etrusco – quello della vicenda di Muzio Scevola per intenderci – protetto, secondo gli storici latini, da un Labirinto. Anche se ancora non se n’è trovata l’ubicazione.
In entrambi i labirinti sopracitati, questi vengono utilizzati come un sistema di difesa a carattere iniziatico, posto a guardia di un luogo sacro o di un tesoro: la sapienza e l’immortalità. A ben pensarci però, anche il leggendario Labirinto di Cnosso, non era così diverso da quello di Meride e di Porsenna: era un ingresso per l’aldilà, un luogo di trapasso, che non è morte, ma accesso ad una conoscenza e consapevolezza superiore. Nel mito la ragione, rappresentata da Teseo e dallo stratagemma della matassa di filo, si scontra con la brutalità e l’istintualità del Minotauro: dal Labirinto si esce solo con la prontezza dell’intelletto, come Dedalo prima di lui.
Il Labirinto è un luogo che ti spinge e costringe a riflettere, perché se non pensi non esci, o meglio, non trovi… e non è detto che sia la via d’uscita. Perché quello che si cerca veramente non è fuori dal Labirinto, ma dentro. Infatti la forma archetipa del Labirinto è unicursale.
Il Labirinto unicursale era costituito da un unico percorso, al quale si accedeva da un’unica entrata e che conduceva al suo centro, nel quale l’uscita si trovava dopo aver percorso la strada a ritroso. Questo rende ancora più evidente quale fosse l’originaria concezione del Labirinto: un luogo al cui interno si cerca qualcosa e il tragitto da percorrere è un viaggio di espiazione e crescita.
Con l’avvento del Medioevo questo significato pagano si cristianizza, i Labirinti compaiono con policrome tarsie marmoree sui pavimenti di cattedrali e basiliche. Il più antico si trova nella Basilica di San Vitale a Ravenna (VI secolo), ma la loro diffusione proseguirà durante tutto il XII e il XIII secolo. Questi labirinti rappresentano il cammino simbolico dell’uomo verso Dio e il centro del Labirinto rappresentava Gerusalemme, la “città di Dio”. La funzione del Labirinto era quella di essere un simbolo del pellegrinaggio o del cammino di espiazione: spesso veniva percorso durante la preghiera, in ginocchio, e aveva la validità di un pellegrinaggio per chi non poteva intraprendere un vero viaggio. Bisognava seguire un cammino obbligato e durante il tragitto non si poteva mai ripassare attraverso un punto già superato o abbreviare il tragitto. La lunghezza e la tortuosità del percorso alludevano infatti alle difficoltà che si possono incontrare seguendo il cammino spirituale.
Dunque il peregrinare nel Labirinto non è solo un viaggio fisico, ma soprattutto un percorso interiore di elevazione spirituale, come quello che fa Dante attraverso il Labirinto spiraliforme unicursale prima dei gironi infernali, poi del purgatorio e infine dei cerchi angelici. Una stilizzazione di questo percorso sapienziale potrebbe essere individuata anche nel coronamento unico nel suo genere di Sant’Ivo alla Sapienza – per la serie ogni riferimento non è puramente casuale! – che ci ha lasciato a Roma il mitico Francesco Borromini.
Ma come vi accennavo in precedenza, il Labirinto utilizzato come percorso ascetico per raggiungere un più alto grado di consapevolezza, che trascenda persino quello umano, non è una prerogativa esclusiva dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo. I Celti affermavano che chiunque riuscisse a seguire con lo sguardo il tortuoso percorso dei loro intrecci avrebbe potuto trascendere l’umano sentire raggiungendo una specie di estasi sciamanica. Per questo i monaci del cristianesimo celtico adottarono questi disegni utilizzandoli nelle miniature dei testi sacri; così dopo aver letto un passo, meditavano su quest’ultimo seguendo con lo sguardo le forme degli intrecci a bordo pagina e, cambiando stato di coscienza, riuscivano a evocare il significato profondo della Sacra Scrittura e del suo messaggio spirituale.
Stessa funzione la ritroviamo nei mandala indiani. La parola mandala viene dal sanscrito e significa cerchio, ciclo. Con la parola mandala si intende la totalità, l’“essenza” (manda) e “colui che possiede l’essenza” ( -la ). Riferendosi a un cerchio, il mandala è una rappresentazione essenziale e geometrica del mondo e del cosmo, dell’universo intero, simboleggia il ciclo dell’esistenza: nascita, crescita, maturazione, invecchiamento, morte e rinascita. Generalmente i mandala presentano una “cintura” esterna e uno o più cerchi concentrici. All’interno di questi cerchi possiamo trovare figure floreali, geometriche, di divinità, di cristalli. I mandala possono avere una struttura labirintica o piuttosto ripetitiva. Simbolicamente, la prima cintura, quella esterna, rappresenta una “barriera di fuoco” che brucia l’ignoranza; la cintura successiva simboleggia l’illuminazione, quella ancora dopo evoca la rinascita spirituale, e via così finché non si arriva al cuore del mandala. Per questo vengono usati nella meditazione: seguendo con gli occhi il loro percorso è possibile entrare in un differente stato di coscienza e illuminazione.
Dopo il Medioevo il Labirinto perde lentamente la carica penitenziale e spirituale impressa dalla rilettura cristiana per volgere verso significati profani e ormai laici.
Dopo il significato quasi magico che lo caratterizzò nel periodo classico e l’interpretazione religiosa e mistica che acquistò nel Medioevo, il Labirinto dalla metà del Cinquecento diviene un gioco che ben si sposava con l’atmosfera festaiola delle corti, fino ad assurgere a leit motiv dei giardini sei-settecenteschi. Un progressivo mutamento nell’essenza della struttura, da unicursale a multicursale, nel quale si può raggiungere il centro, e l’uscita, seguendo più di una strada, imbattendosi in bivi e vicoli ciechi, fa diventare il Labirinto un luogo in cui ci si può smarrire, purtuttavia non perdendo mai la sua carica simbolica di percorso verso l’elevazione come l’Ercole al bivio.
L’Ottocento fu, nel suo complesso, un secolo manifestatamente antilabirintico. Anche se non si può non citare un’opera ottocentesca che, sebbene non contenga espressamente un Labirinto, ne rappresenta fisicamente la struttura: Alice nel Paese delle Meraviglie. “Quale strada” si chiede continuamente Alice, davanti alle porte dell’ingresso, al termine del cunicolo sotterraneo in cui è caduta, così come nel bosco dove incontra lo Stregatto ed in tanti altri momenti, continuamente preda di quel disorientamento. Perché? La risposta è semplice: nei labirinti di Wonderland così come nella vita di tutti i giorni non esiste una strada predefinita. La tua strada, la strada che passa per la definizione della tua molteplice identità, la devi costruire da solo. Quello che Alice compie è un vero cammino iniziatico alla scoperta di sé stessa; il racconto infatti si intitolerebbe “Alice’s Adventures Under Ground“ – “Le avventure di Alice nel Sotto Suolo” – Alice, come Dante e altri personaggi mitologici dell’antichità – Teseo, Piritoo, Ercole, Orfeo, Ulisse, Psiche, Enea – compie una vera e propria “catàbasi”, una discesa in un altro mondo, dal quale riemergerà un’Alice cambiata, più forte e matura.
È dunque evidente la similitudine fra questo classico della letteratura fantastica e la trama del film “Labyrinth – Dove tutto è possibile“, ad esso chiaramente ispirato, che sviluppa e arricchisce temi analoghi. Lo scopo di Sarah, ragazza in bilico fra infanzia e adolescenza, è quello di attraversare il Labirinto per ritrovare il fratellino rapito da Jareth, Re dei Goblin; un’ardua impresa, dato che il Labirinto è un regno in continua trasformazione, colmo di sorprese, e la coraggiosa ragazza dovrà superare non poche prove. Raggiungere il centro del Labirinto significherà anche conquistare una nuova consapevolezza di sé stessa.
Come ha detto lo scrittore giapponese Haruri Murakami:
“Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te, e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno. Perciò spesso, quando ti addentri nel Labirinto che sta fuori di te, finisci col penetrare anche nel tuo Labirinto interiore. E in molti casi è un’esperienza pericolosa.”
Infine il Novecento riprende il simbolo del Labirinto trasponendolo in varie espressioni artistiche: nelle tele di Picasso, Mirò, Pollock ed Escher; nello Judendenkam di Berlino – dell’architetto Peter Eisenman – un Labirinto di blocchi di cemento rettangolari alti fino a quattro metri che disorienta e intrappola il visitatore, situato sul suolo di quella che era – durante la seconda guerra mondiale – la residenza del gerarca nazista e ministro della propaganda di regime.
Vive nelle creazioni di Adrian Fisher, che fino ad oggi ne ha realizzati 700 in più di 23 paesi diversi. La carriera di questo particolare artista è iniziata nel 1980, quando aveva trent’anni. A dargli l’ispirazione furono le parole pronunciate dal reverendo Ronald Runcie durante la cerimonia per la sua nomina a arcivescovo di Canterbury. Quel giorno, il capo religioso della Chiesa d’Inghilterra ricordò che l’ascesa al cielo è un Labirinto. Fisher ne fu colpito a tal punto da scrivere una lettera al Times dissertando sul significato magico e mistico del Labirinto nel corso della storia e incominciare la sua “missione” di creatore di labirinti.
Ovviamente non si è estinta neppure la vena artistica dei labirinti nell’ars topiaria – l’arte di “scolpire” le piante potandole – un esempio per tutti è il Labirinto del Masone in provincia di Parma, che nasce da una sfida tra l’editore italiano Franco Maria Ricci e lo scrittore Jorge Luis Borges, dopo la dichiarazione di quest’ultimo che Ricci non sarebbe stato capace di costruire il più grande Labirinto di bamboo del mondo. Ricci dimostrò a Borges che si sbagliava quando lo inaugurò nel maggio 2015, formato da ben 200.000 piante di bamboo.
Ma neppure la cinematografia, come sopra accennato, si salva dal fascino del Labirinto, come anche il mondo dei videogiochi, di cui il più celebre di tutti quelli che contengono un Labirinto è di sicuro Pac-Man, ideato da Toru Iwatani e prodotto dalla Namco nel 1980 nel formato “arcade” da sala e successivamente nelle varie versioni per la quasi totalità delle console e dei computer.
Il Labirinto è un mistero autentico, metafora della morte e resurrezione, dell’itinerario dell’anima verso l’elevazione spirituale, denso di insidie e di prove da affrontare, o allusione al raggiungimento della vera sapienza, della conoscenza del sé più profondo, cui perviene solo chi è in grado di percorrerlo per intero, senza perdersi lungo il cammino. Un simbolo arcano, archetipo di molteplici civiltà, antico, ma mai vecchio, sempre capace d’ispirare e stupire.
Concludo questo viaggio consigliando di guardare il video del singolo Wide Awake di Katy Perry, una clip onirica che ci immerge nelle atmosfere di un Labirinto tanto fiabesco quanto inquietante dal quale la protagonista riuscirà ad uscire solo grazie ad una bambina, che poi si scoprirà essere sé stessa da piccola.
Vi saluto come una citazione dal mio amato Alice nel Paese delle Meraviglie:
“Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero.
«Che strada devo prendere?» chiese.
La risposta fu una domanda:
«Dove vuoi andare?»”